L'importanza di chiamarsi Mario

Fine primavera, arriva prepotente il caldo  della bassa Padana, quello afoso, appiccicoso, denso di nebbia mattutina.
Torno a casa dopo anni, dopo tanti giorni passati a fare altro; a lavorare, vedere crescere figli, cercare di tenere vivo un qualsivoglia rapporto umano quasi sentimentale.
Insomma, a vivere.
Il ritorno, si diceva.
Torno per cause di forza maggiore, come verrebbe da dire; torno perché mio padre è caduto dalla bicicletta, come credo capiti a migliaia di persone ogni giorno nel mondo, e cadendo ha rotto un femore, come credo capiti a migliaia di persone ogni giorno nel mondo, e ora è all'ospedale e a me di chiamarlo e basta non è sufficiente.
È un viaggio breve sul numero effettivo di chilometri da percorrere ma lungo sul numero di treni su cui scendere e salire per arrivare a destinazione.
E la mia destinazione finale è il mio paese natale, il paesello perso lungo la strada statale Romea e i campi di grano definiti da ragnatele di canali e scoli, a comporre parte del Delta del Po.
Arrivo quindi a casa mia. Ma senza genitori, fratelli,e altro tipo di parenti. Lo so già, ho organizzato tutto e ci si vedrà più tardi, è sempre così, più tardi, rispetto a qualsiasi appuntamento.
Essendo Loreo, questo il nome del mio paese, molto piccolo nonostante la recente riqualificazione di Città, per meriti storici, ci si conosce tutti, da sempre, anche se non sei nato li ma lo hai scelto per abitarci: diventi parte integrante dei portici, della piazza, del panorama fedele negli anni a sé stesso. È come se il paese intero ti addottasse in modo da avere sempre qualcuno su cui contare.
Il tempo di disfare la borsa ed è ora di vedere come è cambiato il paese, come magari gli anni hanno cambiato me.
Come il resto dell'Italia anche qui, dove inizia un Delta afoso ci sono serrande abbassate ricoperte di ruggine, cantieri aperti con l'unica certezza presente rappresentata dalla Cartiere, del Polesine appunto. Che ha superato crisi, mezze crisi e si è ingrandita, si è raddoppiata e ha fatto crescere generazioni di compaesani.
Devo girarle attorno per andare in centro, ma anche per andare a casa, pure per prendere il treno: la storia vuole che si metta la chiesa al centro del villaggio, noi ci abbiamo messo la Cartiera, con la maiuscola. Mentre cammino la osservo, la vedo pure da casa di papà, e sento gli stessi profumi sgradevoli dei prodotti chimici e la sirena del pulper che segnala che è pieno e sta straripando.
Rivedo facce che hanno solo qualche segno in più sul viso, qualche capello in meno o improbabili colorazioni sui capelli rimasti. Quasi nessuno mi riconosce e la cosa un po' mi fa riflettere.
Ho voglia di bere un caffè al solito bar, quello di sempre, "sotto i portici".
Ormai ci sono quasi; Loreo è in fondo un reticolo di vie quasi di impronta romana, non fosse che sono viuzze strette chiamate calli, con fondaci e madonne sotto le volte che ti fanno sentire quanto Venezia sia vicina.
"Ma sei tu?", così a freddo, in piena afa.
Domanda diretta. Mi giro incuriosito perché riconosco la voce.
"Si, sono io da 45 anni!".
La risposta è volutamente ironica. Mi si avvicina una signora sugli 80, capelli corti e bianchi come quando son partito.
Mi blocca nella calle stretta, afferra la mia mano e la serra che io non la ritragga e mi bacia, contenta.
La conosco, la lascio fare, è il mio paese.
"Sei qui per il papà? Bravo!"
Rapido conto, son passati due giorni, già tutti lo sanno allora.
È mio padre, la signora è rimasta tale e quale negli anni. È quello che in gergo militare si chiama avamposto.
Riprendi l'uso del mio arto e la saluto, ormai sono in centro, il mio caffè finalmente.
Riprendo il cammino spostandomi sotto i portici, davanti il Canalbianco che secoli prima era navigabile, c'era una delle dogane della Serenissima e lungo le sue rive, appena oltre la struttura centrale di portici e prigioni, ospitava una delle case per le vacanze dei Dogi. Lungo il canale conoscevo tutti gli esercenti e i loro figli, credo attuali gestori degli stessi esercizi, e ora me li godo senza scostarmi dai palazzi di tutte le tonalità del giallo e del rosso veneziano, per legge comunale.
Devo bere il caffè ma prima devo pensare al cellulare; entro in tabaccheria.
Il titolare è lo stesso di sempre, con una incipiente calvizie e una postura un po'ricurva, tipica di chi passa le giornate curvo sul pc, che lo fa assomigliare al padre.
Mi osserva un po', è un amico di famiglia, e dopo un lungo sguardo da sopra gli occhiali ecco la domanda.
"Sei tu?"
Stupore e contentezza.
Sorrido e porgo la mano.
"Come sta tuo papà?"
Ecco, capisco che sarà un must ma me ne compiaccio.
Rispondo, veloce scambio di battute e riparto.
Osservo la pavimentazione riportata al porfido originale, mi piace molto, capisco perché al sindaco è stato rinnovato il mandato con un suffragio quasi universale.
Il bar è poco più avanti. Incrocio altre persone, due o tre, in fondo fa caldo, appiccicoso, e l'umidità scivola pesante dentro le ossa.
Il bar finalmente, anzi, il caffè.
Caffè Commercio che con il contiguo Bar Sport, è il pubblico esercizio presente in tutti i paesi.
Entro, tutto nuovo, restyling completo e nuova proprietà. È più giovane, fresco.
Dietro il bancone c'è una ragazza piccola, coi capelli castani raccolti a coda e gli occhiali. Eravamo a scuola assieme, so che mi manda i saluti dal mio papà.
Mi avvicino al banco.
"Buongiorno, mi dica?"
Ho sentito bene? Del lei? Come agli sconosciuti. Dove non mi ha sorpreso la gente anziana mi ha fregato un coetaneo.
A pensarci bene, non sono tanti quelli rimasti in paese.
"Un cappuccino e un bicchiere d'acqua di fonte, grazie."
"Si siede?"
Allora è una battaglia persa.
Bevo il mio agognato cappuccino e mi sento chiedere come sta il mio papà.
Mi giro e incrocio lo sguardo severo, ma quello lo aveva anche i giorni di festa, del meccanico sottocasa. Il tempo gli ha solo concesso di andare in pensione, per il resto è uguale a vent'anni prima.
Lo saluto volentieri e gli offro il caffè perché è una cosa che è sempre bello fare.
Parliamo un po', interrotti dal gestore del locale che puntandomi incuriosito il dito mi chiede se sono il figlio di Mario.
"Si, sono io."
Strette di mano e richiesta di informazioni sul femore malandato del babbo.
Mette a fuoco dopo dieci minuti buoni, chi è Mario e chi sono io anche la barista che esce dal bancone e mi abbraccia.
Di Mario mi chiedono anche altri avventori, persone che hanno lavorato con mio papà o alle quali "Mario ha fatto la casa".
In un pomeriggio afoso, in un bar di un antico avamposto veneziano scopro quanto io sia presente fra poco miei compaesani e quanto mio padre sia benvoluto da tutti.
L'importanza di chiamarsi Mario non è una cosa da poco.

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