Una storia che vorrei raccontarti - dodicesima parte

La mano sui capelli.
La lasciava lì ad accarezzarli.
Lei non voleva spostarsi.

I pensieri correvano.
La vita gli aveva offerto una seconda occasione e l’aveva sfruttata con fatica, organizzandosi al meglio.
Se qualcuno gli chiedeva come avesse fatto , esaltava i meriti della sua buona agenda.
Aggirare discorsi poco piacevoli con l’ironia era una sua abitudine, un atteggiamento consueto di cui spesso i figli sorridevano.
Tante volte aveva desiderato di poter riunire tutti, in occasione delle festività segnate in rosso sul calendario, per trascorrere il tempo insieme, con leggerezza e allegria, gustando i piatti delle mamme e delle nonne. Per debolezza, per cattiveria altrui, quelle riunioni familiari erano rimaste un sogno, che ancora adesso, di tanto in tanto, faceva capolino, nelle ore lunghe e sempre uguali.
Sentì i riccioli sottili scivolargli dalle dita quando la ragazza sistemò nuovamente la testa sulla sua spalla.
Ogni momento di quella giornata aveva scavato ricordi lontani, pensieri sepolti, visi sfocati e vaghi.

“Ti amo”.
Parole scritte, le sue parole più vere, da sempre.
I disegni, con linee sottili e irregolari, tratteggiavano la sua infanzia, raccontavano di lei bambina, di Kyra, la femmina di pastore tedesco che aveva sostenuto i suoi primi passi.
Le foto avevano piccole dediche, scritte a caratteri minuti e ordinati. Negli involucri, nelle buste, aveva cercato con rapida agitazione i timbri postali.
Ne aveva riconosciuto qualche dettaglio, piccoli particolari senza rilievo. Venivano da un’altra parte, non lontano da dove lei e la madre si erano trasferite.
Aveva letto e riletto le lettere, alla luce dell’abbaino, sussurrando domande che restavano sospese e immobili nell’aria densa della soffitta.
“Perché è finita così?”, aveva chiesto infine, con tono severo e rabbioso, lo sguardo dritto sulla foto della madre.
Si era sollevata, aveva percorso i gradini a due a due, aveva accesso il PC.
Doveva capire.
Da sola.
Pochi minuti dopo, le sue dita stringevano il foglio con l’indirizzo giusto.
Tremavano.

Il profumo di bergamotto aveva ormai delle venature di salsedine , ma al vecchio piaceva.
Era il profumo di tanto tempo prima.

Adorava i riccioli da sempre. Ingestibili e voluminosi, circondavano il suo viso di bambino come una nuvola disordinata che sua madre guardava con orgoglio.
Da grande, un po’ per scelta un po’
per obbligo, aveva preferito un taglio corto, ma continuava ad ammirare i riccioli folti e robusti dei
suoi figli.
Tutti con tanti capelli.
Tutti ricci.
Tutti.

I capelli della ragazza gli sembravano infiniti e trasparenti come il mare, ora che li stava
accarezzando.
Le sue dita si muovevano lente, conservando la memoria delle carezze di un tempo.
La nuova compagna lo aveva spronato ad andare sempre avanti, così aveva imparato a chiudere quel piccolo cancello dietro di sé, facendo aumentare la distanza col passato, tra la paura di fare la scelta sbagliata e la sensazione amara della perdita.
“Ho perso, sì.
Alla fine ho perso la mia parte di felicità” , rifletté a voce alta.
“Sono passati anni, mi ritrovo ormai maturo. Ho ripreso in mano la mia vita, sempre chiedendomi perché mi fossi smarrito, evocando i volti che avevo lasciato, immaginando il mutare dei loro tratti, i cambiamenti grandi e piccoli … “

Mentre preparava il suo viaggio, la ragazza aveva letto ancora, fino a ricordare ogni passaggio, ogni parola.
Fra i tanti peluches e bigliettini, aveva stretto forte tra le mani un ciondolo, una catenina con il suo segno zodiacale.
L’aveva indossata subito, era il suo legame con la lettera.

Entrambi stavano zitti.
Ciascuno dentro i propri pensieri, chi bisognoso di una risposta, chi alla ricerca di appigli precisi nel vacillare della memoria.
La sera aveva fatto più fresca l’aria , aveva spento i rumori e le luci del ristorante sul pontile, lasciando solo il riflesso di un lampione, a far loro compagnia rivelando tra i piloni un piccolo scorcio di mare ondeggiante.

“Perché sei venuta a prendermi?” , chiese con esitazione.
Forse non desiderava saperlo, ma era certo di volere che la ragazza parlasse un po’.

Lei guardava il mare muoversi.
Si sentiva dentro un rifugio sicuro, come un beccaccino nel proprio nido.
Alla domanda del vecchio si era toccata il ciondolo, poi d’istinto lo aveva tenuto stretto, prima di asciugarsi le lacrime sul volto. “Posso rimanere ancora appoggiata qui ?” aveva detto infine con voce timida, pur di sentire ancora il tocco delle dita sui riccioli, mentre ripensava alla scatola, che adesso era sistemata vicino al letto, lontana dalla polvere degli anni.

“Avevo bisogno di una risposta” aggiunse, più ferma e decisa, facendo risuonare le parole nel silenzio che li circondava, secche come il rumore della porta di una soffitta quando viene chiusa per sempre.

Una risposta.
Il vecchio la guardò sorpreso.
La vide mordersi il pollice, tenera e smarrita.
“Sono io persona che cerchi? Ne sei sicura ? Sono vecchio, vivo in una residenza per chi è come me…”. Quella giornata, col suo carico di eventi, lo aveva stancato. Sentiva il peso degli anni.
Il bisogno di riposare. La voglia di capire.

“Sì, sei tu che mi puoi rispondere. A modo tuo lo hai fatto, ci hai provato”.

Non le interessava che il vecchio capisse subito.
Lei aveva capito mentre percorreva rapida i gradini di casa, mentre
scopriva il nome sulla lettera, mentre rileggeva la lettera stessa, conservando in sé ogni sua parola.

“So che sono passati anni, forse una o due vite, ma adesso va bene così, è giusto”.

Si fermò , con un sospiro breve “Mi è sempre mancata e l’ho sempre cercata. Negli occhi di tutte quelle che ho incontrato, nelle vetrine, nei dolci. Mi è mancata in ogni istante , ma ora non voglio dare a te la
colpa. Sono io che ho rinunciato a combattere…”.
Provava affetto, stupore, gioia e rabbia. Non si dovrebbe mai smettere di lottare, pensò.




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